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RECENSIONE: Dalla montagna perduta (Pierre Jourde)


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Autore: Pierre Jourde

Traduttore: Silvia Turato

Editore: Prehistorica Editore, 2025

Pagine: 176

Genere: Narrativa straniera, Narrativa moderna e contemporanea

Prezzo: € 17.00

Acquista: Libro



Trama

Lei è la, dappertutto. Tanto ci sovrasta e disorienta. Mondo sopra il mondo. Al limitar del bosco, sul ciglio di un burrone, dove le cose sono e possono smettere di essere. La roccia – lo sa il narratore Pierre Jourde – diventa terreno fertile per il grande pensatore di montagna, che si perde nella natura per poi ritrovarsi, ora in armonia ora come corpo estraneo. Prehistorica presenta un libro inedito (in anteprima mondiale), con cui rilancia il “ciclo della montagna” di Jourde, che dalle vette dell’Alvernia ha sempre tratto ispirazione, a partire dal fortunato romanzo Paese perduto (2019) per arrivare al più recente Il Viaggio del divano letto (2024). Capitolo dopo capitolo, Jourde canta la montagna da par suo, senza sconti né riserve. Racconta la montagna tutta, in tutte le sue sfaccettature, con quanto ha di rassicurante e di sconvolgente.


Recensione

Ci sono libri che non si limitano a raccontare una storia, ma aprono una soglia: quella della memoria, dei luoghi che ci hanno formati e che, pur restando immutabili nella nostra immaginazione, cambiano inesorabilmente nel tempo reale. L'ultima pubblicazione italiana di Pierre Jourde appartiene a questa categoria. È un testo che non cerca l’effetto, che non rincorre la narrazione drammatica o l’intreccio serrato, ma che invita il lettore a un percorso più intimo, quasi meditativo.


La premessa narrativa è semplice: Jourde torna nel villaggio montano dell’Alvernia in cui ha passato la sua infanzia. Ma il ritorno non è quello nostalgico e pacificato a cui certa letteratura contemporanea ci ha abituati. È un viaggio brusco, spigoloso, talvolta persino ostile, verso un mondo che si rivela contemporaneamente remoto e familiare, vivo e fantasmatico. La “montagna perduta” del titolo non è un luogo da cartolina: è uno spazio interiore ferito, una geografia emotiva che l’autore affronta con la lucidità di chi ha deciso di non indietreggiare davanti ai propri ricordi.


Jourde osserva la sua comunità di origine, un pugno di case sparse tra i pascoli, una popolazione che vive secondo abitudini dure, scandite da cicli agricoli e rapporti sociali minimi, con uno sguardo che alterna tenerezza e crudeltà. Non idealizza la vita rurale, non costruisce un mito della semplicità: al contrario, mostra quanto quel mondo fosse segnato da diffidenze, miserie, silenzi invincibili. Eppure, proprio nel modo implacabile con cui ne descrive i tratti emerge una forma di attaccamento autentico, un affetto trattenuto che rende il libro tanto più vero.


Uno dei passaggi più incisivi del testo riguarda la trasformazione dei luoghi. Il ritorno di Jourde non è solo fisico: è l’occasione per constatare ciò che si è perso, ciò che è cambiato e ciò che resiste. Il villaggio appare come un organismo terminale, che sopravvive pur vibrando di un’energia residua. Le case abbandonate, i paesaggi modificati dal tempo e dalle nuove generazioni, gli abitanti invecchiati o scomparsi diventano simboli della fragile continuità tra passato e presente. Qui la scrittura dell'autore francese si fa tagliente e poetica insieme: ogni dettaglio, ogni oggetto, ogni volto osservato sembra contenere una domanda sul senso dell’appartenenza.


In questo libro lo scrittore non si limita a raccontare un ritorno: costruisce una riflessione ampia sul rapporto tra identità e territorio. La montagna non è solo un contesto, ma un personaggio, un'entità che plasma e deforma chi la abita. È un microcosmo che custodisce una cultura destinata a scomparire, e che proprio per questo assume un valore quasi archeologico. Jourde scrive come se temesse che, non fissandola sulla pagina, questa realtà potesse dissolversi per sempre.


La forza di Dalla montagna perduta risiede nella sua duplice natura: è un memoir personale, ma anche un saggio implicito sulla memoria collettiva. È impregnato di malinconia, ma senza cedere mai alla retorica. Ciò che rimane impressa al lettore è la capacità dell’autore di far coesistere intimità e distanza, emozione e analisi. La prosa, precisa e asciutta, genera un ritmo che avvolge, e che trasforma un piccolo villaggio dell’Alvernia in un luogo universale, riconoscibile da chiunque abbia conosciuto la sensazione di un passato che non smette di chiamare.


Si tratta di un libro essenziale nella sua brevità, ma profondamente stratificato. Si legge come un viaggio verso un’origine, ma anche come il gesto di un uomo che vuole fare pace con ciò che resta e con ciò che manca. È una lettura che chiede attenzione, che invita a rallentare, ma che ripaga con pagina dopo pagina di una sincerità rara.


Consigliato a chi ama la letteratura capace di scavare, e per chi sa riconoscere la potenza narrativa dei luoghi, soprattutto di quelli che continuiamo a portare dentro di noi.



Alcune note su Pierre Jourde

Pierre Jourde è nato a Créteil nel 1955, ma la sua famiglia è originaria della remota regione dell’Alvernia, tra le montagne evocate in Paese perduto, La Prima pietra e Il Viaggio del divano letto. Ha un debole per la boxe e la metafisica. Nel panorama letterario francese è una delle voci più autorevoli, probabilmente la più schietta e coraggiosa in assoluto.

Si è sempre distinto per una sorprendente varietà di ispirazione, che gli ha permesso di spaziare dal romanzo al racconto, per arrivare al memoir, alla poesia e al saggio filosofico. Ha ottenuto numerosi premi, tra cui spiccano il Prix Renaudot Des Lycéens, il Prix Jean Giono e il prestigiosissimo Grand Prix De L’Académie Française. È docente di letteratura francese presso l’Università di Grenoble III. In Francia, viene pubblicato da Gallimard.

Tutte le opere di Pierre Jourde in Italia sono pubblicate da Prehistorica Editore.


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