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RECENSIONE: L'atlante dei posti sbagliati (Dinaw Mengestu)


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Autore: Dinaw Mengestu

Traduttore: Antonio Matera

Editore: NN Editore, 2025

Pagine: 288

Genere: Narrativa straniera, Narrativa moderna e contemporanea

Prezzo: € 19.00 (cartaceo), € 8.99 (ebook)

Acquista: Libro, Ebook



Trama

Mamush è un giornalista in crisi. Nato negli Stati Uniti da madre etiope, vive a Parigi con la moglie Hannah e il figlio, e cerca di tenere a bada le sue numerose dipendenze. Tornato a Washington per far visita alla madre, trova ad attenderlo una notizia inaspettata e terribile: Samuel, l’uomo che gli ha fatto da padre, si è appena tolto la vita. Affettuoso e istrionico, anche Samuel era emigrato dall’Etiopia, per poi diventare l’ennesimo tassista straniero in un paese che a poco a poco lo ha annientato. La madre di Mamush lo aveva accolto in casa senza troppe spiegazioni, e la loro strana amicizia, venata di apprensione, è l’enigma che Mamush cerca di decifrare da quando era bambino. Di fronte al dolore per quel lutto improvviso, Mamush capisce che l’unico modo per riprendere in mano la sua vita e il suo matrimonio è fare luce su quel passato misterioso; e così attraversa gli Stati Uniti in taxi, in un viaggio in cui realtà, ricordi e immaginazione si confondono come i panorami fuori dal finestrino di un’auto in corsa.


Recensione

Ci sono romanzi che raccontano il movimento dei corpi e altri che raccontano il movimento dell’anima. Questo appartiene senza dubbio a questa seconda categoria. Dinaw Mengestu, scrittore etiope cresciuto negli Stati Uniti, costruisce un racconto intimo e complesso sull’identità, la memoria e il senso di appartenenza; temi che attraversano tutta la sua produzione narrativa, ma che qui trovano una voce più matura, più silenziosa e insieme più profonda.


Il protagonista, Mamush, è un giornalista americano di origini etiopi che vive a Parigi con la moglie Hannah e il figlio. Dietro una quotidianità apparentemente stabile si nasconde un uomo smarrito: un matrimonio in crisi, una carriera incerta, la dipendenza dall’alcol e un’apatia che sembra divorargli la volontà. Quando riceve la notizia della morte di Samuel, l’uomo che lo ha cresciuto come un padre dopo la fuga dall’Etiopia, Mamush decide di tornare a Washington. Quel ritorno diventa l’occasione per affrontare un dolore antico, ma anche per interrogarsi sulla propria identità e sulle scelte che lo hanno condotto fin lì.


Il viaggio di Mamush non è solo geografico: è una lenta immersione nella memoria, un tentativo di comprendere la distanza che separa ciò che siamo da ciò che siamo stati. Samuel, tassista etiope e figura di riferimento, è stato a sua volta un uomo diviso tra due mondi, incapace di sentirsi veramente “a casa”. Attraverso il ricordo e l’indagine interiore, Mamush ricostruisce la mappa delle loro vite, scoprendo che spesso i legami più profondi sono anche quelli più difficili da interpretare.


Mengestu scrive con una prosa piana, precisa e commovente, capace di rendere la malinconia qualcosa di tangibile. La sua lingua è misurata, ma ogni parola pesa come un gesto. I dialoghi sono essenziali, carichi di sottintesi, e la narrazione procede come un flusso sommesso, quasi ipnotico. L’autore non cerca effetti drammatici, ma lascia che le emozioni emergano in modo naturale, come una verità che non può più essere taciuta.


Uno degli aspetti più affascinanti del romanzo è il modo in cui Mengestu intreccia le geografie esterne e quelle interiori: Parigi, Washington, Addis Abeba non sono solo luoghi fisici, ma rappresentano stati dell’animo, tappe di un percorso di sradicamento e di ricerca. Ogni città è un “posto sbagliato”, nel senso che nessuna riesce a contenere pienamente chi vi abita. E tuttavia, proprio attraverso questi spazi imperfetti, i personaggi cercano di costruire una forma di appartenenza possibile.


Questo libro è quindi un romanzo sull’esilio, ma non solo in senso politico o geografico: è l’esilio esistenziale di chi si sente sempre un passo indietro rispetto alla vita che desiderava. È un libro che parla di perdita, memoria, silenzio e riconciliazione, ma anche di speranza, quella che nasce dal desiderio di capire e di essere capiti.


Un romanzo toccante e raffinato che non offre risposte, ma lascia una traccia profonda. Mengestu conferma la sua voce unica: sobria, empatica e capace di trasformare la malinconia in una forma di bellezza.


Consiglio questo libro a chi ama le storie introspettive e meditate, dove la trama lascia spazio alle emozioni e ai pensieri. È perfetto per chi cerca una lettura che unisca delicatezza narrativa e profondità psicologica.



Alcune note su Dinaw Mengestu

Dinaw Mengestu è nato in Etiopia e cresciuto negli Stati Uniti. I suoi articoli e racconti sono apparsi su The New York Times, The New Yorker, Harper’s Magazine, Granta e Rolling Stone. È autore di tre romanzi, tutti inseriti nella lista dei “Notable Books” del New York Times: Tutti i nostri nomi (2014), Leggere il vento (2010) e Le cose che porta il cielo (2007), che gli sono valsi prestigiosi riconoscimenti come la Guggenheim e la MacArthur Fellowship. Nel 2017 è stato incluso nei “Best Young American Novelists” di Granta.


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