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RECENSIONE: La Tigre Bianca (Ramin Bahrani)



Voto: 3/5

Regista: Ramin Bahrani

Interpreti: Priyanka Chopra, Rajkummar Rao, Mahesh Manjrekar

Anno: 2021

Durata: 125 minuti

Genere: Drammatico


 

Trama

La Tigre Bianca, film diretto da Ramin Bahrani, racconta la storia di Balram Halwai (Adarsh ​​Gourav), un povero ragazzo indiano, che dal suo umile villaggio viene ingaggiato come servo di Ashok (Rajkumar Rao) e Pinky (Priyanka Chopra). I due ricchi signori sono da poco tornati dall'America e alla ricerca di un autista. È così che Balram, cresciuto con l'idea di diventare un servo perfetto, si propone a loro. Peccato che il suo padrone, Ashok, inizi col tempo a manifestare un atteggiamento sempre più arrogante nei confronti dell'autista, fino a quando una notte non lo tradisce, incolpandolo di un incidente commesso da lui stesso.

È da questo momento che Balram, sul punto di perdere ogni cosa, decide di cambiare, ribellarsi alla servitù dei suoi padroni e ascendere egli stesso al ruolo di padrone con il nome "La Tigre Bianca"...


Recensione

Questo è un film sospeso tra due mondi: quello indiano e quello occidentale.

Il mondo indiano è quello che racconta, quello del romanzo di Aravind Adiga vincitore del Man Booker Prize del 2008 da cui è tratto; quello occidentale, e statunitense in particolare, è quello attraverso la cui estetica e sensibilità è filtrato lo stesso racconto.

D’altronde, Adiga ha lasciato da ragazzo l’India per andare a vivere in Australia con la famiglia. E lo stesso, con destinazione Stati Uniti, ha fatto l’ex Miss Mondo Priyanka Chopra, che di questo film non è solo una delle protagoniste, ma anche una delle produttrici.

E due dei personaggi del film, quello della Chopra e quello della star indiana Rajkummar Rao, sono loro stessi, ognuno in modo diverso, divisi tra il loro paese d’origine e quello in cui hanno a lungo vissuto prima di tornare in India, gli Stati Uniti.

Sarebbe bello poter dire che lo sceneggiatore e regista Ramin Bahrani è stato in grado di prendere il meglio dei due mondi e di sintetizzarlo in questa pellicola, ma purtroppo, non è così.

Sulla storia del film nulla da dire. Anzi. Raccontata in prima persona dal bravo protagonista Balram (Adarsh Gourav) lo fa leggendoci un’e-mail al primo ministro cinese Wen Jiabao, che sta per recarsi in visita a Bangalore, con quale il Balram diventato imprenditore spera di potersi incontrare è una spietata disamina della società indiana. Da poverissimo abitante di un fatiscente villaggio, appartenente a una casta di rango inferiore, Balram riesce, con la sua intelligenza e la sua progressiva mancanza di scrupoli, a diventare l’autista di una giovane e ricca coppia, figlio e nuora dell’uomo, ancora più ricco, che domina sul suo villaggio natale. Ma il suo riscatto sociale ed economico è solo illusorio, perché per gente come lui c’è solo un modo per uscire davvero dalla povertà e dalla schiavitù: e non è un modo pacifico.

La forbice sociale che divide l’India a metà tra benessere elevato e miseria, è ben raccontata dalla Tigre Bianca. Ed è qualcosa che, forse non in maniera così spettacolarmente evidente, non riguarda più, solo, quel paese lì, ma anche buona parte dell’Occidente.

Bahrani riesce a essere anche abbastanza efficace nelle sfumature psicologiche. Quando mostra l’ipocrisia dei ricchi, dei giovani indiani occidentalizzati, che fingono empatia nei confronti dei loro dipendenti, ma che sono comunque ancora vittime di una mentalità che vede in loro veri e propri schiavi; e ancora di più nel raccontare il servilismo e il vero e proprio bisogno di avere e amare un padrone di Balram e di quelli come lui, educati da millenni a essere schiavi, succubi, esseri umani di seconda classe. Una condizione, questa, dalla quale si può uscire solo attraverso un gesto radicale, traumatico, violento.

Questo film non è però esente da difetti. Bahrani ha mutuato dal cinema indiano una tendenza alla magniloquenza e alla logorrea che non riesce sempre a sostenere con la sua regia e che viene appesantita dall’onnipresente voce narrante di Balram.

La Tigre Bianca è inoltre un film discontinuo con una prima parte eccessivamente dilatata e qualche calo di ritmo nella seconda parte psicologicamente più tesa. Il suo sguardo, al contrario, è fin troppo esplicitamente americano e hollywoodiano e i tanto sforzi, pure meritevoli, di raccontare con le immagini le contraddizioni dell’India contemporanea, finiscono sempre col risultare superficiali.

Considerati i temi e i risvolti del racconto ideato da Adiga, un pizzico di radicalismo in più nell’uso dei generi (il dramma e il thriller) e nella rappresentazione di quel mondo, avrebbero giovato.

Rimanendo in territorio Netflix, il consiglio per chi vuole vedere e capire l’India di oggi, e farlo attraverso un linguaggio cinematografico ben più forte e migliore di quello di questa pellicola, è di assaggiare il cinema di Anurag Kashyap, e vedere magari Raman Raghav 2.0 o al limite, se questo film vi pare troppo, la serie Sacred Games, che vanta tra i registi proprio Kashyap.

Ha probabilmente ragione Balram, infatti, quando dice che l’uomo bianco è finito e che “questo è il secolo dei marroni e dei gialli”. Tra questi, però, non penso si possa annoverare Bahrani: uno che dirige in maniera anche corretta, ma fin troppo anemica e omogeneizzata.




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